LETTERA APERTA AL QUESTORE

LETTERA APERTA AL QUESTORE
L’autore della lettera, Ario Levrero, risponde ad Osvaldo Ambrosini
Caro Signor Ambrosini,
pensavo di cominciare la mia controreplica con una frase del tipo: «Lei non ha letto bene quel che ho scritto, perché, sul nocciolo della questione, la pensiamo allo stesso modo». Poi, però, ho riflettuto sul fatto che Lei è riuscito in un capolavoro…leggi: mi critica per non aver posto al Questore certe domande, che sono esattamente quelle che invece gli ho posto – e infatti, nel formularle, usa praticamente le mie stesse parole -. Se poi a Lei pare che una domanda non sia da considerarsi tale solo perché espressa mediante una frase che non è interrogativa in senso strettamente sintattico, mi rammarico di non essere stato compreso, ma ho paura di non averne colpa. Detto questo, ribatto alle osservazioni più comprensibili. Anzitutto io…

in questo contesto, non «chiederei da giornalista al Questore» proprio niente: ho specificato di parlare a titolo personale, da cittadino. Altrimenti avrei pensato di scrivere sul mio giornale: ma ciò, al di là della duplice impossibilità fisica e deontologica di ospitare un lungo messaggio scritto da uno che non è né il caporedattore né il suo vice, avrebbe significato far schierare Il Secolo. E un giornale, giustamente, non si schiera da questa o da quella parte solo perché uno o due o dieci dei suoi dipendenti e collaboratori (io rientro nella seconda categoria) la pensano in un certo modo.

    Proseguiamo. Lei dichiara d’aver partecipato a «numerose manifestazioni di piazza, di quelle per cui» io non avrei simpatia, visto che, evidentemente, ho difficoltà a capire che «se non si scende in piazza e non si crea qualche disagio è difficile essere visibili e di conseguenza essere ascoltati». Ma cosa crede, che io sia contro il diritto di sciopero, quasi fossi uno dei discendenti segreti dei Romanov? È ovvio che qualunque agitazione crea disagi: ma, come Lei stesso evidenzia, passa una certa differenza tra una manifestazione autorizzata, delimitata nel tempo e nello spazio, e l’orgia cui abbiamo assistito ultimamente. Che non ha minimamente scalfito la cosiddetta casta, abbattendosi invece su altre vittime del sistema. Anche perché – ma qui si tratterebbe di aprire un altro capitolo – la mia impressione è che, a questi Forconi e forconcini, interessino cose molto distanti dalla giustizia sociale, dal merito, dalla pulizia nelle istituzioni e via dicendo.

    Passiamo ora all’autentica perla della Sua disamina: la teoria – espressa fin dal titolo – secondo la quale io ho bisogno di «appagare la sete di vendetta» godendo nel poter «colpire chi porta una divisa». Le assicuro, e non sto scherzando, che quando ho letto queste parole non sono riuscito a frenare una vivida risata. Io, finora, mi ero beccato solo insulti di segno opposto proprio perché, nelle frequenti occasioni di «tiro al poliziotto», tendo sempre a mettermi nei panni di chi porta la divisa, provando ad intuire quali ragioni possono aver portato quell’uomo dello Stato ad essersi comportato in modo apparentemente criticabile. Qualche volta concludo che le critiche sono infondate, qualche volta che sono fondate ma vanno in ultima analisi rigettate, qualche altra volta che invece esse sono meritate.

    E io non vedo proprio come sia possibile non accorgersi della gravità di un gesto come quello della pattuglia che procura vivande ai manifestanti (Lei dice che forse, in realtà, non si trattava di manifestanti: ma l’ha visto, il filmato? Va bene che realtà e apparenza giocano spesso a nascondino fra loro, ma per confutare l’evidenza ci vogliono prove). Dal punto di vista operativo quei poliziotti – erano in due – hanno dato una mano a quello che, di fatto ma io credo pure di diritto, era l’avversario, permettendogli di tenere la posizione più a lungo; dal punto di vista logico, invece, cosa impedisce di credere che, se oggi sono brioches, domani potrebbero essere fucili?

    In effetti, però, non dovrei stupirmi: noi Italiani siamo tristemente famosi nel mondo per la nostra scarsa capacità di distinguere la sfera pubblica da quella privata, che è poi la principale ragione per cui ogni cosa, dalle quisquilie alle guerre mondiali, finisce a tarallucci e vino.

    Saluti anche a Lei.

              Ario Levrero

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