La scomparsa di Carlo Giusto non mi ha sorpresa.

La sua è stata una partenza impercettibile, come se quel cammino l’avesse intrapreso molto prima, inosservato in quella sua casa che mi sembrava che profumasse sempre di pittura appena stesa, di ciclamini bianchi e di funghi lasciati ad essiccare.

Ricordo anche la disposizione di quadri e sculture che, negli anni, non era mai mutata, con quell’uomo grande e baffuto che mi dava l’idea di un brigatista pentito e immobile nella sua colpevolezza e nella sua redenzione.

Ricordo, e ho ancora in una parete di casa Ramognino senior, il ritratto che mi aveva fatto quando avevo 8 anni. Una modella un po’ recalcitrante, ma obbediente a quell’uomo che dava anche qualche brivido di soggezione. Aveva dipinto una donna dicendo che da grande sarei stata così. Magari fossi diventata così tanto bella, ma gli occhi scuri sono identici e la macchia di cioccolato della mia torta di compleanno c’è sempre. Indelebile.

Lo devo ringraziare per tutte le volte che mi aveva tenuta sulle ginocchia cercando, invano, di farmi imparare la tecnica del disegno.

Ma avevo capito ogni suo colore e ogni suo significato.

E ancora lo ringrazio per avermi fatto recensire la sua ultima mostra a Savona dove avevo visto, chiarissime, le sue sofferenze e i ricordi vivi che nascondeva. E lui aveva pianto commosso di quella sua debolezza scoperta che era diventata la sua forza pittorica degli ultimi anni.

Ora voglio pensarlo con le sue due donne, seduto ad un tavolino di molti colori per spiegarsi, per capirle e per riaverle

Loretta Ramognino

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