La desertificazione commerciale. Un grave problema, più di quanto non si pensi

È un dato di fatto, assodato, che i centri commerciali contrastino con il commercio al dettaglio, finendo per causarne l’agonia e la morte. La pletora di centri commerciali troppo vicini, poi, finisce per suscitare una cannibalizzazione reciproca, causa eccessiva concorrenza interna. I dati di realtà più avanzate della nostra, come quella statunitense, ci dicono che alla fine è il commercio on line a prevalere, con buona pace della vivibilità, della socialità dei centri urbani, lasciando scheletri di centri commerciali cadenti come in un film di zombie, e persone rinchiuse in casa a ricevere beni a domicilio.  Compreso il cibo, dove la vita triste e sfruttata dei rider dice tutto dell’involuzione in negativo.

A che punto siamo, a Savona e dintorni, in questo processo? E quali le conseguenze?

Ipercoop e Le Officine

Abbiamo nell’ordine l’Ipercoop, costruita a suo tempo troppo vicina al centro cittadino, con ricadute per il commercio dei quartieri limitrofi, specie Villapiana; poi le Officine, a ben poca distanza: entrambe le strutture, con il crescere della concorrenza, hanno dovuto ottenere varianti e aggiustamenti, ridistribuendo gli spazi e affittando anche ad altre attività e a centri medici. Del resto, ormai si sa che la salute non è più un diritto, ma un business, per cui è perfetto che gli ambulatori siano vicini ai prosciutti e ai detersivi.

Poi è arrivato il Molo 844 a Vado, anch’esso appeso a un successo precario, legato a una manciata di negozi peculiari.

Molo 884 e la Città sul mare

Citiamo per dovere di cronaca gli spazi dell’ex Centrale alla foce del Letimbro, progettati male e gestiti peggio, con parcheggio sotterraneo fatiscente e mal frequentato, negozi fantasma e clientela sporadica. Una prece, specie per chi ha dimostrato una tale lungimiranza pianificatoria. Inutile dire quanto sarebbe stato bello ottenere, come onere di urbanizzazione, una destinazione pubblica e sociale della ex centrale, anziché un rinunciabile emporio di vestiario. Ma sono, come si dice, in dialetto, messe dette.

Non contenti di cotale spiegamento di forze, si aggiungono il Lidl ricostruito e ampliato sul lungomare, mentre altri nuovi insediamenti commerciali si progettano, in fregio alla vivace speculazione di via Nizza e dintorni.

Ora, la desertificazione di cui al titolo. Preciso che non è una banale nostalgia del pittoresco negozio di quartiere, ma molto, molto di più, e di più complesso. Oltre alla già citata vivacità, socialità e vivibilità urbana, che quando latitano, spalancano porte al degrado, e lo vediamo, ha a che fare sia con la competenza, l’esperienza, la disposizione a consigliare e l’umanità di chi vende, (lasciamo perdere per un attimo, per favore, le battute sulla torta di riso), sia con la tipologia e la qualità di merce.

È un dato di fatto che nei centri commerciali l’offerta sia limitata, la qualità media tendente piuttosto verso il basso.  Poche marche standard e iperpubblicizzate, e ultimamente, un po’ di greenwashing a prezzi da amatore. Alimenti insipidi altamente processati, accessori ed elettrodomestici che si rompono a guardarli, in nome della santa obsolescenza programmata, grandi confezioni e plastica su plastica ovunque. Santuari del consumismo imposto e della crescita insostenibile, il contrario esatto di quel che si dovrebbe fare per salvare quel che resta del povero pianeta.

Magari i più giovani sono abituati o rassegnati a tutto questo, il che è anche peggio, ma chi giovane non è più, ha modo di fare confronti, e capire quanto si sia perso.

Come dicevo, non è infrequente che cercando una specifica tipologia di merce, non la si trovi, o almeno non si reperisca come la si vorrebbe.

Sparita dai radar? Obsoleta? Ebbene no. La si trova, magia, nel commercio on line, dove è disponibile l’impensabile. Non avendo altra scelta che ordinarla e farsela recapitare, anche quando, del commercio on line, si pensa tutto il peggio possibile.

Il processo lento delle vetrine vuote e serrande abbassate a volte non è così percettibile, ma cresce e cresce.

Faccio un esempio, il quartiere dove vivevo fino a poco tempo fa, le Fornaci, periferico ma tutt’altro che degradato, anzi piuttosto ambito, vista mare. Nel giro di poco tempo hanno chiuso ben due edicole, ora non ne resta una in zona; due pescherie, una molto celebrata e storica e una che cercava di darsi da fare proponendo cucinato; un fioraio, anch’esso storico, come una lavanderia, l’unica della zona; un tabaccaio, per tacere dei vari ortofrutticoli dall’apertura breve e altrettanto brevi speranze.  Aggiungiamo vetrine polverose chiuse da tempo e mai riaffittate.

Resistono solo bar e varie attività di somministrazione cibo, nonché rinunciabilissimi bazar di cianfrusaglie e souvenir importati. Non critico ovviamente l’etnia dei gestori, solo la tipologia di merce e la sua utilità nel quadro generale.

Che nel frattempo aspetto e degrado del quartiere siano peggiorati, è un dato di fatto, legato in parte alle vicissitudini della partecipata dei rifiuti, ma non solo.

Ognuno può fare lo stesso esercizio in altri quartieri della città. Magari soffermandosi avrà modo di stupirsi.

Il centro non fa eccezione. Tanti preziosi contributi diversi dalle catene omologate si perdono per sempre. Ne cito solo due, che mi hanno colpito personalmente.

Il negozio di casalinghi Lamberti in via dei Mille era una risorsa preziosa e frequentatissima, dalle pentole ai piccoli accessori proponeva di tutto: ha chiuso per ritiro dei proprietari, e ovviamente, da quando il buon Bersani che ora fa tanto il progressista ha liberalizzato il commercio, non ha trovato rimpiazzo. Ora le rivendite di casalinghi in città, fuori, appunto, dalle catene dei supermercati, sono merce rarissima.

In via Guidobono esisteva un altro negozio prezioso, la Fontanina, che proponeva oggetti in plastica di tutte le specie, e a volte rappresentava una risorsa unica o quasi, nel suo genere. Anche qui, ritiro e chiusura.

Poco tempo fa sono entrata in un centralissimo negozio di borse, che frequentavo volentieri, e ho trovato aria di smobilitazione. Che dire? Tristezza.

Ripeto però che nostalgia del buon tempo antico e malinconie da anziani c’entrano fino a un certo punto, qui si sta parlando di cose pratiche, reperibilità di un certo tipo di merci, professionalità, competenza, della meno tangibile ma altrettanto importante qualità della vita urbana e della stessa tenuta del tessuto sociale, del cui disgregamento notiamo inequivocabili segnali.

Il modello economico sociale americano, adatto per le terre vaste e per una nazione giovane, ma non certo per l’antica e culturale Europa, altrove ha trovato giusti anticorpi e resistenze, ma da noi, proprio nella nazione che da cultura e tradizione aveva più da guadagnare e molto da perdere, è penetrato come lama nel burro, per insipienza dei governanti di ogni colore, sudditanza psicologica, mancanza di orgoglio nazionale e complesso di inferiorità conclamato. Nonché per gli interessi economici di pochi, vedi quel buonanima che ci ha trascinato nel vortice del liberismo televisivo.

Che fare? Non saprei, molto è stato già distrutto imponendo le grandi strutture. E non parliamo di aree pedonali: quelle aiutano dove il commercio c’è già, non ad aprire nuove vetrine in tempi di crisi. Guardate come sono ridotti i centri pedonali di Carcare e Cairo, per uscir fuori dalle polemiche savonesi.

Calmierare gli affitti, proporre consorzi di via o manifestazioni può aiutare, ma non risolve. Occorrerebbero misure serie a livello regionale o meglio nazionale, per salvaguardare la varietà, qualità e diffusione della proposta, tutelando i presidi di quartiere e di zone isolate, oltre a ciò che è tipico e meritevole, come si tutelano monumenti e musei.

Ah, già, non è che anche per quelli… va be’, forse occorrerebbe proprio cambiare Paese.

Milena Debenedetti

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