C’è un “Modello Savona“. Così almeno ci dissero all’indomani delle elezioni amministrative del 2021, quando un’alleanza di intellettuali inquieti, ex militanti in pensione e forze sociali un po’ vaghe si presentò alle urne con un progetto talmente sofisticato che persino i partiti, di solito più restii a lasciar spazio agli altri, si trovarono a doverlo accettare. O, più probabilmente, si accodarono solo per non restare fuori dalla foto di gruppo.
E così Marco Russo, l’uomo “nuovo” del centrosinistra savonese, vinse. Vinse alla grande. Con un programma che prometteva di rifare l’identità della città, cambiare la vita dei savonesi e restituire un’anima a un territorio devastato dall’industria, dal cemento e da decenni di amministrazione a corrente alternata.
I primi segni del cambiamento sono stati l’allargamento dei dehors, una pedonalizzazione pasticciata, senza una visione complessiva, senza un piano serio di mobilità alternativa, senza nemmeno consultare decentemente i commercianti o i residenti.
Risultato: vie chiuse e deserte dove ci si perde tra vasi, tavolini e fioriere, ma dove l’accessibilità è un rebus e la logica urbanistica una chimera. Dove la parola “vivibilità” è diventata sinonimo di “arrangiatevi”.
Poi è arrivato il grande sogno collettivo: Savona Capitale Italiana della Cultura 2027.
Un’idea nobile, costruita con passione, certo. Ma anche con un pizzico di autocompiacimento e una discreta dose di eventi vetrina, più pensati per i comunicati stampa che per i cittadini. È stato il trionfo del convegno, la celebrazione della diretta streaming, la beatificazione del panel.
Ma alla fine, con tutto il rispetto, ha vinto un’altra città.
E a Savona? Restano le slide. Quelle non ce le toglie nessuno.
Mentre l’amministrazione digeriva in silenzio il fallimento della candidatura culturale, ecco arrivare il vero colpo di scena del secondo atto: il progetto della raccolta differenziata porta a porta.
Un sistema sacrosanto sulla carta, ma imposto con modalità tali da sembrare una punizione collettiva. Quartieri trattati in modo diverso, regole confuse, multe a pioggia, e una sensazione generale di improvvisazione e distanza.
I cittadini non protestano contro la raccolta differenziata in sé, ma contro un metodo percepito come ingiusto e punitivo. Le petizioni si moltiplicano, le assemblee si affollano, i social esplodono. Si parla di “mastelli di serie A e serie B”. E il disagio cresce, anche perché nessuno si è preso la briga di accompagnare questa transizione con una vera opera di educazione civica, informazione capillare e ascolto.
In tutto questo, i partiti tacciono. Sono rimasti silenziosi durante la candidatura culturale, ora si limitano a qualche post indignato o solidale, a seconda del vento che tira. Niente proposte, niente mediazioni. Solo comunicati stampa e scroll distratti.
Il “modello Savona”, che avrebbe dovuto essere laboratorio politico e innovazione civica, oggi sembra più un reality show malriuscito, dove i concorrenti parlano da soli e il pubblico ha cambiato canale da un pezzo.
Da un lato, sogni alti come la Torretta, con conferenze su “identità urbana” e “nuova cittadinanza attiva”.
Dall’altro, bidoni traboccanti, cittadini furibondi e una città dove la distanza tra politica e realtà sembra aumentare ogni giorno.
L’identità di Savona? Ancora da ritrovare.
La partecipazione? Solo se non si contesta la giunta
La politica? Sostituita da una narrazione autocelebrativa che, alla prima difficoltà vera, mostra tutta la sua fragilità.
E allora forse il “modello Savona” c’è davvero. Ma è il modello di una politica che si specchia, si racconta, si autoanalizza, ma che fatica tremendamente a sporcarsi le mani con la vita vera.