L’America di Altman è sostanzialmente malata di status simbol, un’affezione che riguarda sia i suoi cittadini vincenti che quelli perdenti: tutte le economie delle loro forze psichiche prese nella tempesta del disagio.
Le loro personalità sono infatti stravolte da paradossi complicati, in cui si intravede nei vincenti l’ansia devastante del mantenimento del successo e nei perdenti una credenza ossessiva in una propria superiorità morale che però è prossima al masochismo.
Tutto ciò ha conseguenze comuni di abbruttimento generale che non lascia speranza di uscita. Si formano infatti inevitabili sintomi clinici (più o meno mascherati) come l’isteria, la nevrosi, la sessuofobia, e altre maniacalità che magari erano ancora da classificare negli anni ’90. Il tutto con effetti anche di infantilismo, dipendenza tossica da droghe, violenza, volgarità e qualche assassinio qua e là.
Quanto ci sia di vero in questo film è difficile da capire, resta il fatto che un artista del calibro di Robert Altman ispirato con intenzioni di seria obiettività da una prospettiva osservativa originale quale è rappresentata dal protagonismo del dettaglio di vita delle famiglie anziché da una parola sintesi del loro vivere, favorisce nel film una comunicazione altra, che avviene per via di deduzione di un particolare impertinente, la cui comprensione logica è lasciata liberamente in mano all’intelligenza dello spettatore.
La ricchezza dei dettagli abbozza qualcosa dei retro pensieri, caratterizzanti i vari modelli di vita delle famiglie, è un delinearsi quindi di rarefatti tratti analitici nevrotici, riguardante il costume sociale e culturale dell’America preso in una costante decomposizione.
Film sconvolgente per l’immaginario mitologico postmoderno ancora legato al sogno americano.
Il più importante film di Altman, lontano da ogni convenzione etica cinematografica e da esigenze spettacolari, nonché da fotocopie sceniche camuffate qua e là di originalità.