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Il caso di S. Rita

Il caso di S. Rita: la concessione di vivere
un problema per tutti
Le proteste dei cittadini di S. Rita verso le persone, perché di questo si tratta non dimentichiamolo mai, che usufruiscono della mensa della Caritas hanno comunque un inizio ed una ragione….

Il primo, prettamente ideologico, è il concetto ormai stabilmente radicato che un emarginato è un delinquente a prescindere. Basta qualche episodio, riprovevole e da condannare sempre, per criminalizzare una massa di indigenti. Ma è un concetto transitato dalla politica di oggi, quindi difficilmente risolvibile a breve termine. Il secondo che la mensa porta veramente problemi autentici, che non sono però legati tanto alla localizzazione ma al consolidamento dell’emarginazione che questo sistema di sostegno radicalizza. Chi viene spinto fuori dalla società per qualsiasi ragione è una persona priva di quella forza di volontà necessaria ad affrontare le evenienze della vita, quindi difficilmente troverà dentro di sé la forza di reazione se non attraverso accorgimenti mirati e validi solo se applicati per ogni singola persona. Tralasciando i motivi psicologici che lo portano verso l’alcolismo, il tabagismo, patologie di vario tipo e forme di rabbia repressa sempre possibile di esplosione, il primo problema che si trova ad affrontare un senzatetto, oltre alla ricerca di un riparo, è quello di nutrirsi. Questo diventa l’unico scopo della vita, per il quale è necessario “combattere”. Se questo scopo viene raggiunto senza fatica, allora la condizione dell’indigente si fossilizza nella’attesa del pasto ed il resto della giornata viene affidato al nulla se non alla questua per alcol e sigarette. Un esempio: la raccolta media di una giornata di elemosina è attorno ai trenta euro. Un gruppo di tre persone organizzate fra loro potrebbe tranquillamente pagarsi un affitto e vivere decorosamente anche con questo sistema di “lavoro”. Non succede, mai. Non succede proprio perché il problema primario, mangiare, viene risolto senza fatica. Questo è meritorio, certamente i volontari che si occupano di questo meritano non una ma dieci medaglie, ma a medio termine priva della dignità personale. Non dimentichiamo che dopo l’istinto di sopravvivenza l’impulso più forte di un essere umano è la libertà, ed anche se illusoria e innaturale questa è la condizione che un senzatetto vive quotidianamente. Proprio la mancanza di dignità rafforza questo concetto di essere liberi di vivere la propria vita. Quello che tanti anni fa era il concetto base dei clochard parigini, spesso autentici pensatori ed artisti, si è tramutato in una invenzione mentale che porta rapidamente alla distruzione dell’individuo. Cosa fare è semplice, basta volerlo. Un esempio concreto viene da Pistoia, dove una comunità, gli Elfi, da molti anni vive sull’Appenino dove ha occupato alcuni antichi villaggi abbandonati. Nel tempo, hanno riattato le vecchie case fatiscenti e vivono di agricoltura autoproducendo il loro fabbisogno. Dopo resistenze iniziali hanno instaurato un ottimo rapporto con i paesi vicini, senza mai un problema. Molti clochard ci vanno a vivere sempre integrandosi perfettamente. Un altro esempio viene dalla comunità di S. Patrignano dove lo scomparso Vincenzo Muccioli recuperava persone con problemi molti più gravi sempre attraverso il lavoro e il recupero progressivo della dignità personale. E forse anche per questo massacrato da media e istituzioni. Ma gli esempi sono tanti, sempre con risultati ottimali. Quanti vecchi poderi abbandonati esistono in provincia di Savona? Quante strutture, anche enormi e lasciate al nulla, posseggono il Comune e la Chiesa? Si crei una comunità agricola autogestita ma con regole precise, si cerchi il sostegno di psicologi anche neolaureati (non servono geni dell’inconscio ma solo persone capaci di rapporti umani), si utilizzano pensionati per realizzare una scuola di lavoro. Si chiuda la mensa di S. Rita destinando le risorse impiegate ad un progetto di recupero e non di sola sussistenza. Sono certo tutti i cittadini savonesi, non solo di quel quartiere, contribuiranno a renderlo continuativo. Assicuro, conti alla mano, con molto minor costo dell’attuale sistema. Ma non possedendo personalmente l’esclusiva della logica, sono certo questo lo sappiano anche tutti gli operatori di volontariato. Mi chiedo allora perché non si ripensi il concetto di solidarietà, che deve diventare interattiva e annullare sprechi e a volte anche clientelismi, non è certo il caso della Caritas, a volte assurdi. Occorre distribuire non più la concessione di vivere ma il sostegno individuale delle istituzioni, se davvero si vuole risolvere il problema. Il vero scopo di una associazione di beneficienza dovrebbe essere la sua scomparsa per mancanza di “lavoro”.

Noi viviamo in una società competitiva ed emarginante, il numero delle persone in difficoltà crescerà esponenzialmente creando gravissimi problemi. Nella nostra città già esiste un fenomeno semi sconosciuto di anziani che non chiedono sostegno proprio per dignità, ma per mangiare raccolgono gli avanzi dei mercati quando non addirittura dai cassonetti. E’ accettabile? Accettabile che donne di più di 80 anni, dopo una vita di lavoro, facciano le pulizie in casa dei vicini per raggranellare qualche euro? Penso la risposta sia ovvia, per chiunque viva in questa città o altrove.

 

Falco Savonese

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