Mussolini, il liberatore e il ricostruttore … Nel marzo 1923 Giovanni Agnelli – il nonno dell’Avvocato – è nominato senatore del Regno, «unico fra i grandi industriali italiani a beneficiare del laticlavio alla prima “infornata” del nuovo regime». Ha ben meritato a quanto pare, dal momento che «il Duce sa chi è l’onorevole Agnelli», uno che «ha dato moltissimo per la propaganda fascista sostenendo giornali rappresentanti la più vera espressione del Fascismo». In effetti, per la Fiat Mussolini sarà un vero uomo della Provvidenza. Ormai battuto (da Agnelli, e dalle prime squadre fasciste) il movimento dell’occupazione (119 imprese di tutti i settori erano stati occupati e in quasi 90 stabilimenti erano stati insediati Consigli di fabbrica), schiacciate ed estromesse le commissioni interne e buttati fuori, causa licenziamento, 2600 operai (comunisti, socialisti, sindacalisti), per «il più perfetto stabilimento di stile americano» la strada è tutta in discesa. Dirà infatti di lì a qualche anno il Signore dell’Auto: «Il tempo sinistro del sovversivismo distruttore, che da noi culminò nell’episodio tragico dell’occupazione delle fabbriche, é passato per sempre. In quei giorni c’era da pensare di avere costruito sulla sabbia anche gli edifici più solidi del lavoro… Ma sorse Mussolini, il liberatore e il ricostruttore, e l’Italia che non poteva morire fu tutta con lui». La mano del regime Proficuo connubio. La Fiat tutto chiede e tutto ottiene. Immediatamente é accantonata, come richiesto appunto da Agnelli e soci, tutta la spinosa faccenda delle tassazioni sui cosiddetti extraprofitti di guerra; la “pacificazione sociale”, come viene chiamata, può procedere con i connotati della schiacciante rivalsa degli industriali, la emarginazione dei sindacati, l’affermazione del corporativismo in funzione di rottura dell’unità di classe; e può procedere dentro la fabbrica, giorno per giorno, con la pratica dei «licenziamenti e delle riassunzioni a condizioni peggiori». Seppelliti i provvedimenti di confisca dei sovrapprofitti di guerra, abrogata la legge sulla nominatività dei titoli fin dal novembre 1922, arrivano a ruota l’alleggerimento delle imposte di ricchezza mobile e alcuni favorevoli ritocchi daziari. La reciproca collaborazione fra il regime e gli industriali è sancito dal Patto di palazzo Chigi già il 19 dicembre 1923, non si perde tempo. Agnelli ha elargito soldi e benevolenza al Fascio locale – e durante il delitto Matteotti si è anche lui attenuto rigorosamente al “silenzio degli industriali” – ma non gratis, ovvio. Tra i benefici incamerati immediatamente dalla Casa torinese per mano del nuovo regime si può elencare (grosso modo): l’assorbimento della Spa avvenuto nel settembre 1924; il progetto di elettrificazione delle linee ferroviere con Milano e Genova; la partecipazione della Fiat alla Sip anche nel settore telefonico; la conclusione delle trattative per l’incorporazione della società Aeronautica Ansaldo; e soprattutto la costruzione di un’altra grande acciaieria Martin-Siemens. Senza perdere tempo, si può anche elencare «la benevola udienza del governo per un trattamento doganale di favore nel rinnovo del trattato di commercio italo-tedesco; le trattative di Agnelli con Mussolini e Ciano del febbraio 1925 per l’aggiudicazione alla Fiat delle linee sovvenzionate dell’Alto Tirreno, già proprietà dell’Ansaldo; l’ingresso del gruppo torinese nel Consorzio delle Ferriere Nazionali all’ombra dei dazi protettivi…». Eccetera. Insomma, un assai redditizio do ut des (ed è dell’ottobre 26 la costituzione della “Società Editrice La Stampa”, «il quotidiano finiva così sotto il diretto controllo, politico e amministrativo, del senatore»). Le cose vanno a gonfie vele. Dopo la “501”, esce la “509”, un nuovo modello di vettura utilitaria. E’ il 1925 «e il fatturato aveva raggiunto in quell’anno l’importo di 1 miliardo e 260 milioni, una cifra d’affari superiore a quella di qualsiasi altra impresa meccanica europea». Non per tutti sono rose e fiori. Per esempio non stanno benissimo – ma non è nuovo – i 35.000 operai Fiat. Sullo sfondo delle manovre per la rivalutazione della lira, in quegli anni, mentre il governo fascista decide per decreto la decurtazione del 10 per cento del salario, Agnelli taglia le maestranze e riduce l’orario lavorativo: il numero degli addetti scende a 30 mila e poi a 23 mila. Il lucro, comunque, prospera. Negli stessi anni la Fiat si intasca centinaia di milioni (dell’epoca!) sottratti con destrezza al Tesoro in seguito all’affare del prestito americano; ottiene ulteriori premi fiscali e, quello che più conta, incassa il primo grosso provvedimento protezionistico. C’é infatti il reale pericolo che la Ford arrivi in Italia con le sue auto, Agnelli corre ai ripari: ed ecco che Mussolini in persona vara una legge straordinaria la quale, «includendo l’industria automobilistica tra le attività interessanti la difesa nazionale», impedisce lo smercio di macchine non costruite integralmente in Italia. Protezionismo Non è che un primo passo, l’intero commercio estero diventerà materia corporativa a favore esclusivo dei grandi gruppi industriali, Fiat in testa: si inaugura l’era dei premi per le esportazioni e del contingentamento stretto delle importazioni. A totale beneficio del Signore dell’Auto: la “Balilla” – che esce nell’aprile del 1932 – è graziosamente esentasse (cioè non paga tassa di circolazione) per più di un anno; la prima autostrada Torino-Milano, chiesta dalla Fiat, viene fatta anche se falcidia le casse dello Stato; i superdazi su certi prodotti esteri, vedi caso gli autoveicoli, arrivano persino al 200%. Per di più, non mancano le rimostranze di Agnelli in persona contro il governo, a causa del ventilato rilancio delle ferrovie… In sostanza, in pochissimo tempo, il regime significa per la Fiat la conquista di una economia di monopolio, la “cartellizzazione” coatta del mercato. Non per questo la Fiat rinuncia a licenziare e a torchiare i salari (anche introducendo il famigerato sistema Bedaux, un marchingegno di sfruttamento spinto). «Alla fine del 1930 i salari di tutti gli operai italiani – annota Valerio Castronovo (“Giovanni Agnelli”, Einaudi) -venivano ridotti d’autorità dell’8 per cento. Ma già da alcuni mesi la Fiat aveva proceduto a massicci licenziamenti. Prima ancora della fine dell’anno, tremila operai venivano allontanati dalla Sezione Automobili, altri quattrocento dalla Spa; e nuclei non meno consistenti seguivano la stessa sorte nei diversi stabilimenti della casa torinese, contribuendo ad ingrossare le file della disoccupazione, che arriverà a superare a Torino, in pochi mesi, la cifra di trentamila persone». Verrà il tempo delle 5.000 mitragliatrici. Quelle per l’Abissinia, dove vennero impiegati anche i velivoli C32 e i nuovissimi camion poi ribattezzati “gli autocarri della vittoria”; quelle per l’appoggio a Franco nella guerra di Spagna (commesse militari per oltre 42 milioni di lire, che prevede la consegna, tra l’altro, di 51 velivoli); e quelle per la Seconda guerra mondiale che ormai è alle porte. Già nel settembre 1939 «Agnelli aveva inviato Valletta a Roma per assicurare il “duce” che, in caso di mobilitazione, la produzione delle vetture di piccola cilindrata avrebbe potuto essere convertita integralmente in lavorazioni di impiego militare entro sei mesi». Il mondo brucia, ma gli affari sono affari. «Paolo Ragazzi, che fu dirigente della Fiat in epoca fascista e stretto collaboratore sia di Agnelli che di Valletta – scrive Alain Friedman (“Tutto in famiglia”, Longanesi) ha rievocato incontri con ufficiali della Wehrmacht a Torino, numerose visite nella Germania nazista, e l’importanza che la Fiat dava a questi contatti. Ma, sottolineava Ragazzi, Agnelli e Valletta cercavano di fare affari con tutti, dai nazisti ai francesi. Ed è vero che durante la guerra la Fiat mantenne contatti con i nazisti, i fascisti, gli alleati, la Resistenza. Non c’era tempo per scrupoli ed ideologie. Gli affari erano affari, e niente era più importante dei profitti dell’azienda». Affari di guerra di tipo “cielo mare terra”. Sono gli operai, obbligati con orari vessatori e salari sempre di fame alla produzione bellica, a dare il segnale della rivolta. «La mattina del 5 marzo alla Fiat Mirafiori si iniziava lo sciopero. In tutti i reparti il lavoro cessava e la maestranza si raggruppava: “Vogliamo il carovita! Vogliamo vivere in pace”». Poi, il 16 agosto la truppa apre il fuoco contro gli operai della Fiat Grandi Motori, che per primi hanno iniziato ” lo sciopero della pace” e sette lavoratori restano feriti. Il giorno dopo per protesta settemila operai incrociano le braccia, e poi gli scioperanti diventano 35 mila. Nella Torino occupata dai nazisti, i lavoratori Fiat scioperano anche il 1 dicembre 1944, sotto i fucili degli uomini del generale delle SS Zimmermann che minaccia dure rappresaglie. Una grande pagina di una grande classe operaia. Reparto “confino” A Liberazione avvenuta, Agnelli e Valletta subiranno una sentenza di epurazione da parte del Cln. Ma pochi mesi dopo, auspici gli Alleati, tutto finisce in bellezza, Agnelli e Valletta tornano al loro posto. Cambiano i tempi, non i metodi. «Con l’inizio del 1953 cominciarono ad arrivare gruppetti di operai, e l’officina ebbe la sua brava sigla, Osr, Officina Sussidiaria Ricambi. Balzava agli occhi il colore dei nuovi arrivati: tutti rossi, compresi i capi, provenienti dalle più svariate sezioni Fiat. Dell’Osr si cominciò allora a parlare sui giornali di sinistra e la Camera del Lavoro denunciò la creazione di un’apposita “officina confino” da parte dell’azienda». La storia della Osr, Officina Sussidiaria Ricambi, diventa da questo momento la storia dell’Osr, Officina Stella Rossa, la lunga storia della caccia al comunista, al socialista, al sindacalista dietro i cancelli della Fabbrica-Mito. L’impero colpisce ancora La storia si ripete, tra licenziamenti, ostracismo e schedatura dei rossi, sindacato giallo, cassa integrazione a go go, anni 70, anni 80… La Fiat è diventata un Impero. Un gruppo che controlla un quarto dell’intero mercato azionario, conta 569 controllate, 190 consociate e opera in 50 paesi. Fiat Dynasty. Specialista nel ramo “privatizzazione dei profitti, socializzazione delle perdite”. Maria Rosa Calderoni Torino, 13 ottobre 2002